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'Genova che è tutto dire' di Luigi Surdich e Patrizia Traverso

Pubblicato da oleg su 9 Dicembre 2011, 18:55pm

Tags: #I Nostri Speciali

http://www.mentelocale.it/img_contenuti/collaboratori/grandi/genova-traverso-g.jpgSono convinto che Litania sia davvero una poesia “singolare  e straordinaria”, come scrive Luigi Surdich nel suo saggio compreso in questo volume. La prediligo tra le poesie di Caproni, e devo cercare di capire il perché. Leggendola, vengo preso da un senso di vertigine musicale, di spaesamento ritmico che mi fa desiderare di dirla ad alta voce, e poi di lasciarla circondare da un silenzio assoluto. È una poesia in cui si va come in altalena, si sale, si cade, ci si dondola, ci si feriscono le ginocchia, ci si lascia prendere allo stomaco. Ha dei vertici metrici, degli abissi metrici. I suoi ottonari e settenari  sono scanditi, sillabati. Hanno un metronomo interno. Crome e biscrome da leggere in un irto esercizio di solfeggio. Le note sono ripetute allo spasimo, hanno quell’effetto invocativo e incantatorio tipico delle litanie.

Ma qui la preghiera è assolutamente laica, o forse, a parte quel ritmo, non vuole neppure essere preghiera. Ne viene fuori un testo enigmatico, tutto endiadi, apposizioni, contrasti folgoranti sin dall’inizio (geranio-polveriera, ferro-aria, lavagna-arenaria) e vortici di rime inattese, né lirico né narrativo, estraneo ai riti della poesia novecentesca corrente. Sarà per questo che ne subisco sempre il fascino?

Litania l’ho letta tardi. Quando di Caproni, che avevo del tutto trascurato nella mia prima giovinezza milanese e neoavanguardista, cominciò a parlarmi Italo Calvino, facendomene dei ritratti sempre in bilico tra ammirazione e ironia, entrambe affettuose. E leggendola, rileggendola, mi sembra di rivedere la silhouette magrissima, quasi disincarnata, il volto tormentato del poeta, quell’aria da violinista stralunato, bizzarro che mi colpì le pochissime volte che lo incontrai. E ancora, leggendola e rileggendola, risillabando le tre note della parola sdrucciola con cui comincia ogni distico, regolo i miei rapporti con Genova, capitale della mia Liguria dove però non ho mai dormito più di due notti di fila, e si acuisce il mio desiderio di conoscerla, percorrerla, viverla, studiarla, capirne il segreto e il tesoro, più nascosto e antico di quello di San Lorenzo.

Litania è la mia guida attraverso gli alti e i bassi, la luce e l’ombra, il sacro e il profano, gli odori e i colori, i suoni e il mutismo, il cielo e i grattacieli, il mare e i monumenti di questa città, anch’essa “straordinaria”.
Il libro consacrato a Litania è un grande atto d’amore. Per Caproni. Per Genova. Luigi Surdich interroga quasi ogni distico, lo mostra nel suo processo di formazione, ne segue le concrezioni stilistiche e formali, lo colloca all’interno dell’opera caproniana, con riferimenti a raccolte come Ballo a Fontanigorda, Stanze della funicolare, Il muro della terra, e ad interviste, ad articoli, ad altre rare testimonianze. Ci fa vedere la trama di ricordi autobiografici e familiari che regge tutto il testo, con i riferimenti a Silvana e Attilio, a Rina, alla madre. Ci racconta i rapporti personali di Caproni con Sbarbaro, con Barile. Ci certifica che non ci fu mai un incontro con Montale, che pure ha un posto centrale nella linea ligure tracciata da un distico di Litania: “Genova nome barbaro. Campana Montale Sbarbaro”.  E, in un pregevole excursus interpretativo sul distico “Genova di caserma. Di latteria. Di sperma” ci guida anche in particolari linguistici come la derivazione del termine caproniano “rifresco” da  “refrescumme”, quell’odore un po’ nauseante che ristagnava su piatti mal lavati dopo che vi si era mangiato soprattutto delle uova. Odore che abbiamo ancora nelle narici noi che siamo nati quando il trionfo universale dei detersivi non si era ancora celebrato.

Il lettore troverà poi una serie di foto dovute a Patrizia Traverso, per lo più in un bianco e nero molto nitido, insieme documentaristico ed evocante, crudo e arioso, e qualche volta a colori dove i colori sono espressamente richiamati nel testo poetico (così ci appare come una epifania il rosso bellissimo di un rimorchiatore). Queste foto non si limitano a illustrare i versi (anche se poi lo fanno a meraviglia), ma li interpretano, ne danno la versione per immagini, in una sequenza mai pedissequa e mai ovvia, piena di scatti musicali in sintonia con il testo.
Un vero itinerario in una Genova che non è più quella di Caproni ma lo sembra ancora. La verticalità è suggerita da una scala su una facciata scrostata, intelligenti anacronismi ci mostrano graffiti sui muri, cartelli su cui il termine banca è scritto anche in arabo, il Matitone in diverse ore e prospettive (per me quel grattacielo è così attraente da quando ho scoperto la sua somiglianza non so se voluta, ma certo non incongrua con la torre di Galata, mio faro quando sono a Istanbul). Tra tanti scorci di case e strade e così poche, impreziosite  presenze umane, trovo incantevoli le fotografie dei limoni (non di montaliani cortili, ma gloriosamente in primo piano) e delle onde in una mareggiata, tra nuvole di salino. E quegli stoccafissi che disegnano come un groppo di radici o un cespuglio di fiori marini, sono il felice equivalente visivo di certe irte volumetrie verbali della Litania.  

“Mia litania infinita”. Caproni sentiva che la rincorsa musicale di questa sua poesia poteva continuare, riprodursi. E in parte la continuò giocosamente, o forse con una affettuosa malinconia non detta, quando gli amici genovesi ne festeggiarono i settant’anni, e li volle includere in nuovi sorprendenti distici: Devoto, Verdino, Guerrini, Liliana, la moglie di Stefano.
Questo libro, alla fine, con le sue immagini parallele, con la sua ermeneutica amorosa, è davvero il modo migliore per rileggere Litania. È vero, le sue salite non sono “spirituali”, il suo mare non è “estatico”, come Caproni stesso sottolineava pagando un debito alla cultura novecentesca dominante. Ma il lettore sente che questa vasta e irta preghiera non dichiarata, dissimulata, è  ansiosa di infinito: e mette il dubbio (non a me, io lo  penso  dagli anni Settanta del secolo scorso) che ogni grande poesia sia a suo modo, sempre diverso, un frutto dello spirito e dell’estasi.( Fonte: www.mentelocale.it)

Autore: Giuseppe Conte

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