L'isola di Hispaniola si trova nel Mar del Caribe stretta tra Cuba e Portorico. E' divisa in due parti: una è un inferno, l'altra, è un paradiso (almeno per i turisti). L'inferno si chiama Haiti, una terra che ha subìto ben più di sette piaghe. Ha avuto una coppia di dittatori spietati come «Papà Doc» e suo figlio, «Baby Doc», che l'hanno spolpata e violentata per anni e ora che François Duvalier è morto e il suo pargolo, Jean Claude, è stato cacciato, imperversano violenza, lotte intestine, nuove forme di malgoverno e, da ultimo, è arrivato, a dare il colpo di grazia, il terremoto. Il paradiso (per i turisti - dicevamo - ma anche gli indigeni viaggiano a livelli largamente al di sopra di quelli dei loro sventurati vicini) è la Repubblica Dominicana. Un Paese che vive della produzione di zucchero, tabacco, Rhum e da qualche decennio dell'industria dei viaggi. Sole battente, spiagge bianche, acque azzurre, belle donne e uomini prestanti. Il menù amato da chi frequenta i villaggi «tutto pagato» e sceglie i tropici in funzione della tintarella, del relax, delle avventure - chiamiamole - galanti. Questo è solo un cliché. La fetta dorata dell'isola offre ben altro.
La storia delle Indie Occidentali, per esempio, è cominciata qui. Hispaniola, dopo la micro isola di San Salvador e Cuba, è stata la terza tappa «americana» delle caravelle di Cristoforo Colombo nel viaggio che, nell'autunno del 1492, portò alla scoperta di un nuovo mondo. Qui, pochi anni dopo, uno dei figli del navigatore genovese costruì, nella nascente città di Santo Domingo, il più sontuoso palazzo delle Indie, che ancora oggi si regala intatto agli occhi dei golosi di storia e di architettura. Sempre a Santo Domingo è nata la prima cattedrale delle Americhe. Una pennellata di cultura islamica nel Mar del Caribe. La parte centrale del tempio, massiccia ed imponente, è stata realizzata in puro stile «mudejar», un genere architettonico nato al tempo della riconquista cristiana della penisola iberica. Vi confluiscono la leggerezza degli architetti arabi e l'imponenza che amavano gli «ingegneri» spagnoli. Vedere antiche cupole da moschea araba rosseggiare nell'ombelico delle Americhe fa una certa impressione. E' la prova che la cultura non si ferma mai nel luogo di nascita ma si espande nel mondo come una macchia d'olio sulla carta. Tutta la parte coloniale di Santo Domingo è un inno alla presenza spagnola nelle Indie: i conventi, i palazzi dei conquistadores, i forti militari. E di notte, in riva al mare, sembra ancora di sentire le voci dei pirati e dei bucanieri che infestarono queste acque. Sembra di sentire gli spari delle bombarde corsare di Sir Francis Drake, che espugnò la città nel nome di sua maestà Elisabetta I, regina d'Inghilterra. Sembra di sentire i lamenti degli schiavi che arrivavano dall'Africa ammucchiati nelle stive dei negrieri, sofferenti e denutriti. Quelle che non si sentono più sono le voci dei Tainos, gli indigeni di Hispaniola, sterminati in pochi anni dalla violenza e dalle malattie portate dalle navi spagnole.
Santo Domingo - così per estensione del nome della capitale tutti chiamano la Repubblica Dominicana - offre anche straordinari spettacoli naturali. Nella baia di Samanà, che si trova sulla costa Nord del paese, affacciata sull'Atlantico, da gennaio a marzo, si può assistere allo spettacolo delle balene che coccolano i loro - si fa per dire - «piccoli», si corteggiano e si accoppiano. Ogni anno, provenienti dall'Islanda e dal Maine, passano dalla baia migliaia di cetacei della varietà «ballenas jorobadas», le balene con la gobba, rese celebri dai documentari di Jaques Cousteau per la singolarità del loro canto.
Ma il vero tesoro dell'isola è il paesaggio dell'interno fatto di colline, coltivazioni di cacao e di caffé, case dai colori sgargianti. Non pensate alle colline toscane, che si aprono docili come labbra in un sorriso; quelle di Santo Domingo sono appuntite come denti di pescecane. Piramidi verdi che si succedono l'una all'altra ognuna col suo ciuffetto di palme o di piante di banano sulla vetta aguzza. In mezzo a tutto questo verde le piccole fattorie dominicane, che paiono uscite dritte dritte da «Cent'anni di solitudine»: la casetta col patio nel centro, il piccolo giardino con una sterminata varietà di fiori (in uno ne abbiamo contato 52 diverse), farfalle che svolazzano intorno, e, nel retro, l'orto con la papaya, la yucca, un mango gigante, patate. Poco più in là, la piantagione; a volte di caffè, a volte di cacao, spesso di platano, la banana da friggere, che sull'isola ruba il posto alle patatine.
A santo Domingo nell'aria si trovano ossigeno, idrogeno e musica. Non c'è un posto nell'isola, anche il più lontano, dove non corrano le note di salsa e merengue. I bambini sulla spiaggia non giocano a calcio ma contano uuuno, dos, treees. cuatrooo...: i passi base della bachata. A Las Terrenas, sulla costa atlantica, è nato un operatore turistico, Altilis (www.altilisgroup.com), che offre una settimana di soggiorno comprendente anche 10 ore di lezione con insegnanti locali di salsa, bachata e merengue e sei serate nei tipici locali da ballo del posto: dai car wash (spiazzi per il lavaggio delle macchine dove «se ne vedono di tutti i colori») frequentati da chi ha pochi pesos nelle tasche, alle discoteche più eleganti di Las Terrenas. Una full immersion elettrizzante nella colonna sonora di Santo Domingo. ( Fonte: www.gazzettadiparma.it)
Autore: Luigi Alfieri