“No water, no whisky”: è lapidario il commento di Andy MacDonald mentre assaggia l’acqua che sgorga dal terreno e forma una limpida pozza all’interno della foresta. E’ un po’ paradossale ma per intuire le potenzialità di un whisky bisogna partire dall’acqua. E Andy, che di professione fa il distillery manager di Glenmorangie - storica distilleria delle Highlands scozzesi - non ha dubbi. Nella ricca mineralità dell’acqua delle Tarlogie Springs, che riemerge in superficie dopo una media di circa cento anni passati nella profondità della terra, lui riesce già a leggere tutti i “flavours”, i profumi, che si sprigioneranno dalla distillazione.
Per non lasciare nulla al caso, i precedenti proprietari della distilleria, negli anni Ottanta, decisero di acquistare circa 650 acri di terreno attorno alle fonti di Tarlogie: volevano impedire che qualsiasi progetto di urbanizzazione o di allevamento di animali potesse andare a pregiudicare la purezza dell’acqua. E così, ancora oggi, la fonte viene incanalata e convogliata verso la vicina distilleria, dove nel 1843 William Matheson cominciò a produrre whisky.
Ci troviamo a Tain, una cinquantina di chilometri a nord di Inverness, sulle rive del Dornoch Firth, uno dei tanti fiordi che spingono le acque di Mare del Nord fin all’interno delle Highlands settentrionali. La Corrente del Golfo mitiga i rigori della latitudine e il paesaggio di quest’angolo di Scozia, solitamente trascurato dai turisti, ha la tranquilla bellezza di campi coltivati, dolci colline, qualche cottage sparso qua e là fra migliaia di pecore. “Un clima mai troppo caldo, ma mai troppo freddo che ci aiuta anche nella maturazione del whisky” spiega Andy MacDonald. Infatti le botti piene di whisky riposano tranquille nelle warehouse, i magazzini costruiti a pochi metri dal mare.
La visita della Glenmorangie (www.glenmorangie.com), che in gaelico significa “valle della tranquillità”, è una delle attrazioni della zona: ci arrivano più di ventimila persone ogni anno, forse richiamate dalla leggenda della “distilleria dei 16 uomini”. Erano solo 16 gli uomini che per molto tempo hanno vegliato sulle fasi principali della lavorazione : i mashmen che sovraintendono alla macerazione del malto per offrire il miglior “mash” possibile agli stillmen che dovranno distillarlo, prima di passare il liquido alcolico, già ricco di profumi ma ancora totalmente incolore, ai warehousemen che gestiscono i magazzini dove le botti trovano le perfette condizioni di maturazione. Un terreno fatto di terra e ghiaia che mantiene la giusta umidità nei capannoni di legno e ardesia dove regna la penombra interrotta da qualche finestra per l’areazione.
Il mito dei “16 uomini di Tain” ha qualcosa di affascinante, ma oggi, con l’aumento della produzione, gli addetti sono in numero ben maggiore. Le fasi più delicate della produzione richiedono una lavorazione 24 ore su 24 e ad ogni postazione ruotano a turno 3 specialisti. Negli ultimi anni sono stati acquistati nuovi alambicchi e nuove vasche di fermentazione e all’inizio del 2005 il marchio Glenmorangie è stato acquisito dal gruppo francese Moët Hennessy. Eppure l’atmosfera all’interno della distilleria sembra essersi fermata nel tempo: in qualche caso chi lavora oggi in azienda è figlio o nipote di mashmen o di stillmen, si acquista solo orzo scozzese (quasi a chilometro zero) e la spettacolare sala degli alambicchi ha un che di ottocentesco. E’ qui che si scopre uno dei segreti della fortuna di cui questi whisky godono in Scozia e in tutto il mondo.
Quando nel 1843 William Matheson ottenne l’autorizzazione a distillate, invece di comprare alambicchi nuovi, trovò degli alambicchi a collo di cigno di seconda mano in una distilleria di gin e li adattò alla produzione del whisky. Oggi gli alambicchi sono 12 (6 per la prima distillazione, 6 per la seconda) ma anche quelli più nuovi, costruiti a mano da abili ramai, mantengono la stessa forma lunga e arcuata e raggiungono i 5,14 metri di altezza, tanto da essere considerati i più alti di tutta la Scozia. Qui più che altrove si può dire che la forma è sostanza, perché le dimensioni dell’alambicco sono fondamentali per ottenere un single malt dalle caratteristiche estremamente fini e complesse.
Ma non si potrebbero comprendere appieno le caratteristiche particolari del Glenmorangie senza completare la visita con quella delle warehouse dove matura il whisky. La distilleria applica quello che potrebbe essere definito un vero e proprio “regime del legno”, un’attenzione particolare per l’affinamento nelle botti. La base per tutti i prodotti della gamma è l’invecchiamento in barili di quercia bianca americana che in precedenza hanno contenuto Bourbon. Dopo dieci anni è pronto The Original, l’etichetta più nota della distilleria. Ma la passione per la sperimentazione dei legni ha fatto nascere la linea speciale dei wood finish: il whisky viene affinato per altri 24 mesi in barili che in precedenza hanno contenuto Sherry, Porto o Sauternes. Ne nascono tre prodotti, i single malt Lasanta, Quinta Ruban e Nectar d’Or, con peculiarità organolettiche diverse ma ugualmente convincenti. Unica concessione ai gusti molto lineari della gamma è il Signet che utilizza un malto molto tostato in grado di apportare profondità e intensità.
Dopo aver visitato la distilleria, durante i fine settimana si può soggiornare a qualche chilometro di distanza presso la Glenmorangie House (www.theglenmorangiehouse.com), una tradizionale casa di campagna che si affaccia sulla costa del Dornoch Firth. In pochi minuti si scende sul sentiero costiero che conduce a Hilton, piccolo villaggio di pescatori. A scoprire la riproduzione (l’originale si trova al National Museum of Scotland di Edinburgo) di un’antica stele, la Cadboll Stone, risalente all’VIII secolo. Un periodo in cui questa zona era dominata dal misterioso popolo dei Picts, i picti descritti da Tacito.
La sera, camino acceso e un bicchiere di whisky sono il miglior preludio a una cena a base di haggis, il piatto nazionale scozzese. Gli ingredienti non devono intimorire: cuore, polmone e fegato di pecora macinati assieme a cipolle, farina d’avena, spezie e poi bolliti a lungo nello stomaco dell’animale. Spesso si arricchisce il tutto con del whisky e il risultato è un sapore sorprendentemente delicato. Un piatto talmente amato dagli scozzesi che il poeta Robert Burns nel 1787 gli dedicò un’ode, l’Address to a Haggis. Che un vero Highlander, meglio se vestito in kilt, ama declamare prima di sguainare il coltello conservato nei calzettoni e affettare la succulenta specialità. ( Fonte: www.lastampa.it)
Autore: Dario Bragaglia