Nasce dal fuoco, Procida, e del fuoco conserva il ricordo nel calore delle mattine assolate, nei silenzi dei pomeriggi estivi. Era fuoco, migliaia di anni fa, anche il tufo giallo che oggi sprofonda nel mare, a picco sotto i bastioni di Terra Murata e di fronte all’isolotto di Vivara. E il lapillo grigio era incandescente, come la roccia bianca che qua e là affiora presso il mare.
Procida è la meno famosa delle isole campane. C’è Capri, con la Piazzetta e i vip, c’è Ischia, con le acque termali e i resort, poi c’è questo piccolo mondo colorato che sembra un pezzo di Napoli staccato dai Quartieri Spagnoli e precipitato nell’azzurro del Golfo. Fatto di strade ombrose che d’improvviso si aprono in cortili illuminati dal sole, dove con il tempo i mattoni di tufo tornano alla loro natura di pietra morbida, rifugio di fiori impossibili e piante mostruose, mentre un fregio, una curva barocca, una fontana si svelano tra l’alluminio anodizzato e le tapparelle rotte. Intorno ronza il traffico dei motorini e delle auto, qualche turista interroga la cartina o curiosa nelle botteghe.
La primavera inoltrata è un momento ideale per visitare Procida, che si raggiunge facilmente da Pozzuoli o da Napoli. Si può scegliere l’aliscafo, ma se il tempo è bello è preferibile il traghetto: si spende meno e si viaggia accompagnati dai gabbiani fino a metà percorso. Poi, con il vento a favore, l’isola si annuncia con un profumo di limoni in fiore, e viene in mente Goethe (anche se «das Land, wo die Zitronen blühn» era in realtà la Sicilia).
L’isola è piccolissima e per girarla a piedi basta un weekend. Si arriva al porto di Marina Grande, accolti da un palazzo merlato che fu residenza reale prima e convento poi (oggi è un caotico condominio), si percorre Marina Grande, quindi via Roma. Ci si può fermare per un caffè e una lingua procidana, dolce di pasta sfoglia e crema, provare una pizza o una frittura di pesce, o chiedere in salumeria una «colazione», un panino imbottito, magari con mozzarella di bufala. Per i piatti tipici di Procida, come l’insalata di limoni con la menta, il coniglio con le olive, la pasta alla pescatora con alici e peperoncini verdi, meglio però affidarsi a ristoranti meno turistici.
La settecentesca Chiesa di Santa Maria della Pietà e
San Giovanni Battista impone una scelta: proseguire per la piccola spiaggia della Lingua o affrontarela salita che porta a Terra Murata. Ne vale sempre la pena, che il sole sia alto o che il cielo sia cupo di nuvole da tregenda: la vista è spettacolare, con il mare, il Vesuvio, Napoli, la penisola sorrentina, Capri. Da visitare l’Abbazia di San Michele Arcangelo, patrono di Procida, festeggiato due volte, l’8 maggio e il 29 settembre. La chiesa, inizialmente un convento benedettino, oggi si presenta di impianto barocco con un ricco soffitto a cassettoni in legno dorato; le statue lignee, il pavimento, gli organi a mantice hanno invece una bellezza povera e un po’ cadente, ma è questo il fascino di Procida. Il biglietto del museo costa pochi euro e permette di curiosare nelle cappelle delle Confraternite, i cui membri il Venerdì Santo vanno in processione incappucciati, e di dare un’occhiata a quel che rimane dell’ossario, una grande fossa comune che raggiungeva il livello del mare.
Il vecchio Castello borbonico, che per un secolo e mezzo è stata una prigione, non è visitabile, ma tra sterpaglie e costruzioni abusive regala ancora scorci suggestivi; poco più in basso, il Casale Vascello è un tipico esempio di architettura procidana, con edifici addossati gli uni agli altri, collegati da scale rampanti e archi. Ancora più in giù c’è la Chiesa della Madonna delle Grazie (XVII secolo), all’estremità di Piazza dei Martiri, altro punto panoramico. Si scorge in basso la Corricella, incantevole borgo marinaro di case multicolori che si specchiano sull’acqua. Qui Massimo Troisi ha girato alcune scene de «Il Postino», qui Cy Twombly amava conversare davanti a una grattachecca con gli amici pittori Afro, Toti Scialoja, Gastone Novelli.
Era il 1957: l’anno in cui Elsa Morante vinceva il premio Strega con l’«Isola di Arturo», scritto e ambientato a Procida. Vi aveva passato diverse settimane con Moravia, alla Pensione Eldorado; molti chiamano ancora così quella palazzina rosso sbiadito su via Vittorio Emanuele che oggi è sede del Premio e del Parco letterario dedicato alla scrittrice. Varcato il portone, l’aroma di limoni e cedri del giardino è una promessa di felicità: perché si realizzi basta percorrere il sentiero centrale fino al piccolo terrazzo a picco sul Tirreno. Una porticina di legno sulla destra, che doveva essere già vecchia ai tempi della Morante, incornicia una poetica vista sulla spiaggia di Chiaia; per arrivarci bisogna raggiungere Piazza Olmo e percorrere i 182 gradini della discesa a mare.
Nel pomeriggio il sole si sposta sull’altro versante dell’isola: per una sosta meglio allora la spiaggia del Ciraccio o quella del Pozzo Vecchio, più isolata e selvaggia. Al tramonto scintillano le luci di Ischia e il porticciolo della Chiaiolella si anima per l’aperitivo; dietro il profilo scuro di Vivara le onde s’illuminano di fuoco.
"Nel 1957 Elsa Morante vinse il premio Strega con l’«Isola di Arturo», scritto e ambientato proprio qui"
Fonte: www.lastampa.it
" Procida al profumo dei limoni in fiore" di Bruno Ruffilli
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