Al mattino presto, per sei mesi l’anno, qui la terra è come se respirasse. Dai campi scuri e dalle impercettibili rogge si alzano vapori che spesso diventano nebbie e allora si azzerano le distanze e silenziano i rumori. Altre volte sono solo un velo che si dissolve presto, evaporando come l’aroma di una caffettiera in controluce. E dissolvendosi aprono la vista al paesaggio del Lodigiano.
Ognuno di noi per settimane ha sentito parlare di zone rosse e arancioni del Lodigiano. Lo ha sentito nominare così tante volte questo Basso Lodigiano che ha finito per mandare a memoria i nomi dei paesi ( Codogno, Castiglione d’Adda, Casalpusterlengo, Fombio, Maleo, Somaglia, Bertonico, Terranova dei Passerini, Castelgerundo e San Fiorano), versione contemporanea – da stato di crisi – della filastrocca felice degli anni Sessanta: Sarti, Burnich, Facchetti, Bedin, Guarneri, Picchi, Jair... Ma quanti possono dire di averlo visto davvero, il paesaggio del Lodigiano? Forse l’hanno attraversato di fretta con il Frecciarossa, ridestandosi dalla tastiera del cellulare quando si scavalla il Po e le rotaie sul ponte fanno più rumore. O in autostrada, lungo l’A1, con il nome dell’uscita di Casalpusterlengo che rimane impresso come fosse uno scherzo della toponomastica, un anagramma dell’arrivo per chi risale da Sud. Ma sono attraversamenti distratti. Se chiedi com’è le risposte son vaghe, i ricordi sanno di nebbia.
Pochi sanno che vagando nel Basso Lodigiano si incontrano campi come tavoli da biliardo, alberi come scacchiere. Righe diritte come diritti appaiono gli schemi ortogonali di certi pioppeti piantati nelle aree di golena, lungo il Po, vicino all’Adda. Intorno, tra i campi seminati a mais che in estate diventa un labirinto verde in cui è un gioco infantile perdersi, si scorgono cascine e casali, grandi, spesso grandissimi. Una volta erano pieni di gente, generazioni di famiglie di contadini. Oggi ce n’è poca di gente, più mucche e maiali che persone.
Perché si respira un’aria di solitudine nelle campagne del Lodigiano. La bella solitudine dello spazio aperto. Lasciate le zone altamente urbanizzate di Milano e della sua cintura, salutati capannoni e svincoli stradali, abbandonati gli interstizi periferici della metropoli, si arriva finalmente dove la pianura è davvero pianura, piatta, senza ostacoli all’orizzonte che non siano le Alpi verso Nord e gli Appennini verso Sud. La pianura e la campagna nel Lodigiano non sono concetti astratti, da sussidiario, ma un’esperienza quotidiana. Un mondo reale fatto di sveglie quando il sole ancora temporeggia, di lavori agricoli che non sono il piccolo orto ma le grandi distese delle fattore industriali, segno distintivo del paesaggio di un’area fertile come poche altre in Italia. Fertile perché così da quasi dieci secoli l’ha resa l’uomo: almeno da quando, era il 1220, iniziarono i lavori per il canale della Muzza. Pianura irrigua si dice, terre un tempo paludose bonificate nei secoli con un sistema di fossi, rogge e canali che a poterli vedere dall’alto diventerebbero come una scintigrafia del terreno. Segni che raccontano la storia dell’evoluzione di un paesaggio naturale che più umanizzato non potrebbe essere. Solitario perché poco abitato, umanizzato perché artefatto.
Paesaggio che ha un fascino discreto, tranquillo non certo eclatante. Fascino che si coglie camminando nelle ore marginali, quando se fai troppo rumore calpestando il terreno nove volte su dieci disturbi un airone che poi è costretto a dispiegarsi in volo, maestoso e leggero. Terre che ammiri se ti inoltri in bicicletta, seguendo le sterrate – strade bianche le chiamerebbero altrove dove sanno di marketing territoriale – che tagliano i campi. Strade paradossalmente curve, storte in un territorio senza ostacoli, perché solo gli ingegneri che non hanno legame con la terra le tirano dritte. I contadini un tempo lasciavano che seguissero il percorso di rogge e fossi, ogni metro quadrato arabile era importante. Strade che congiungono cascine e frazioni, aggirano paesi costruiti in zone il più possibile protette: perché la pianura è bella, senza asperità. Ma i fiumi, l’Adda, il Lambro, il Po, quando uscivano, uscivano: invadevano tutto senza contegno, senza riguardi.
Paesi agricoli, certo: è la prima cosa che specifica la Guida Verde della Lombardia. A legger le statistiche l’oro di queste terre è bianco: latte che diventa Granone Lodigiano, capostipite di tutti i grana. O che nella modestia dell’anonimato produttivo – chi pensa al latte quando mangia un formaggio ? – finisce nei formaggi che compriamo al supermercato. Paesi di campagna, dall’aspetto del « centro agricolo padano», che per secoli sono cresciuti legati alla terra, ancorati al lavoro, ma hanno sviluppato castelli sontuosi: come quello visconteo di Sant'Angelo Lodigiano; quello di Fombio che sembra un palazzo; o il Castello di Somaglia che è più una residenza signorile che un fortilizio. E non mancano le residenze signorili ( a qualcuno dovevano appartenere le proprietà di quelle ricche terre), come la barocca e imponente villa Litta, a Orio Litta. Ma ci sono anche torri di solidi mattoni, come la Torre della Pusterla a Casalpusterlengo e immancabili santuari, come quello della Madonna delle Grazie, a Codogno.
Oltre c’è il Po che scorre incurante, chiuso nei suoi massicci argini, indisturbato dalle barche che ormai da tempo non lo solcano più. Dall’alto della strada arginale, che sta più in alto dei campanili delle chiese e più in basso solo dei tralicci dell’elettricità, si osserva bene il paesaggio del Lodigiano: da un lato l’acqua, qualche cava di sabbia, dei rari ristoranti con atmosfera da balera estiva anni Settanta, dall’altro la sterminata campagna. Il Po, dicono i libri, segna storicamente il confine tra Lombardia ed Emilia, tra pianura e pianura, campi e campi, nebbie e nebbie. Come se potesse essere un confine amministrativo a interrompere il paesaggio, a dissolvere le nebbie.
( Tino Mantarro)