" Addis Abeba, cuore italiano" di Stefano Rotta
Volando sopra Addis Abeba, capitale dell’Etiopia e dell’Unione Africana, ci si accorge subito di quanto sia ancora buia l’africa fuori dagli ultimi confini della metropoli. La città, nel centro, scintilla, per digradare nelle immense e tentacolari periferie.
Quasi dappertutto, nonostantel’altitudine, le piogge e il vento di quota, l’odore acre – lì respirato come una cosa vitale, come una forma di progresso – del gasolio. I motori dei camion, e delle corriere, sforzati per il peso e la vecchiaia, lo bruciano male essendo oltre i duemila metri, e in coro emettono fumate nere, che si fanno polvere per tutte le finestre e tutti i polmoni. Addis Abeba è africa pura, è Etiopia, ma ha qualcosa, per via del colonialismo, di italiano. Nella cucina, con gli spaghetti e il caffè «makkkiato», nel vivere, nell’aria. Ha qualcosa di Roma, nei taxi, in come si pongono, in come contrattano, in come alla fine, riescono sempre a fare il prezzo loro. In come dietro questi autisti si nascondano ladri, ladruncoli e persone vere, simpatiche, allegre, dedite al lavoro e alle chiacchierate senza perché mettendoci due ore per dieci chilometri.
Volendo dormire nella capitale, è consigliato, per il miglior rapporto qualità prezzo, il Ras Hotel. E’ un hotel governativo, costruito negli anni della vecchia Addis dell’imperatore, della bella vita, senza motori, con i gelatai italiani e un certo quieto vivere. Lì si dorme con 400 bir a notte, circa 16 euro, le camere sono dignitose; c’è sempre uno strano via vai, di africani, né diseredati né alti diplomatici, e di europei, più viaggiatori che turisti, ma anche businessman o giornalisti senza il gusto di andare per forza nei grand Hotel. Che pure ci sono. E molti. Come lo Sheraton, modernissimo, o l’Hilton, con le sue piscine il suo lusso, difeso dal resto della città con molte guardie e molto filo spinato.
Divertirsi in Addis Abeba non è difficile, le occasioni sono molte, la vita accesa, i giovani un esercito, c’è una sorta di soffriggere di vita alla base di questa bomba umana in mezzo all’Africa. Il sabato sera vengono dati spettacoli di ballerine in costumi tipici, con musiche molto ritmate, suoni atavici, ci va molta gente, l’Etiopia ha un bellissimo rapporto con se stessa, con la sua lingua, l’amarico, con le tradizioni. I bar laggiù traboccano di persone. Tantissimi tavolini, in ognuno, sempre riempiti di persone che parlottano, mangiano fette di torta e bevono molti caffè, uno fra i più buoni del mondo. Una tazzina per un occidentale costa pochissimo, spesso ben meno di 10 centesimi di euro, e così tutto il resto. Fuori città, con un euro, si mangia un piatto di spaghetti.
Lo stacco con la capitale, dove già ci sono automobili, palazzi in cemento, si sente molto. A Jijiga, per esempio, terra di etnia somala, ma dentro il confine, le vie sono sterrate, si gira con asinelli e carretti, per le strade – coloratissime – il mercato della frutta e della verdura non smette mai. Il consumo di khat, ramoscello «magico» è alto, la qualità altrettanto, il prezzo, producendosene molta, basso. Il khat è una sorta di droga leggera, le foglie verdi contengono una bassa percentuale di sostanze anfetaminiche, gli effetti sulla psiche sono quelli di altre tazze di caffè.
Infine, i ristoranti. Il più famoso di Addis è Castelli, nella piazzetta principale. Non un quadrilatero, ma un dedalo di strade trafficatissime, di camion e autobus stracolmi di gente. Il luogo all’interno è carino, pare un ristorante italiano degli anni Cinquanta, per gli arredi e le tovaglie, buoni i piatti, tipici italiani. La famiglia viene dal Tortonese, zone di Fausto Coppi. Ma Addis offre un ventaglio ampio di scelte, come nelle capitali europee ci sono ristoranti indiani, cinesi e messicani. Per tutti i gusti. La comunità italiana, nella capitale, ammonta a circa 1600 persone. Ci sono imprenditori e dee-jay, fotografi e custodi di cimiteri. Il mondo del motore, è ancora pratica di tradizione italica, i rivenditori, i meccanici, i concessionari, sono spesso connazionali. E alcuni vecchi, come fossimo in qualche paese del Belpaese, raccontano di quell’affascinante tempo, qui come là: il Dopoguerra. Si sente ancora la ferita dell’epoca del Derg, quando un regime comunista strappò i beni privati di svariate famiglie, che nei decenni si erano radicate e lasciate benvolere dalla popolazione locale. Solare, allegra, tutt’altro che rozza. ( Fonte: www.gazzettadiparma.it)
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