L’ultima a non avere resistito al richiamo di queste coste è stata la foca monaca. Mancava dall’Italia da quaranta anni, se si escludono avvistamenti di esemplari di passaggio, fuggita dalle minacce dell’uomo e dall’inquinamento. Pochi mesi fa è stata ritrovata qui, alle Egadi, in una grotta dell’area marina protetta più grande d’Europa: avvistata, fotografata, filmata e perfino battezzata dopo un concorso tra i bambini delle scuole dell’infanzia. Alla fine si è scelto di chiamarla Morgana, come la fata Morgana, il miraggio. Ma lei, la foca, c’è davvero, in carne e ossa, testimonial perfetta di un arcipelago che ha sempre vissuto del suo mare.
Mare da cartolina e alla portata di tutti, quello di Favignana, la più grande delle tre isole: cristallino, turchese, con trentatré chilometri di costa ricchi di calette, spiagge, scogli piatti, approdi. Ma anche mare di lavoro, di fatica, di storia. Lo capisci subito, quando approdi dopo appena venti minuti di aliscafo da Trapani, il capoluogo più a Ovest della Sicilia. Tutto quel che c’è intorno al porto, infatti, racconta l’epopea della pesca e della conservazione del tonno, una delle industrie alimentari più avanzate al mondo con i Florio, gli imprenditori che alla fine dell’Ottocento fecero sognare alla Sicilia un destino luminoso, tra cantieri navali, filande, servizi postali, estrazione dello zolfo, metallurgia. E che dal 1874 fino alla loro rovina nel secolo successivo furono letteralmente i padroni delle Egadi, dopo averle comprate dai Pallavicino-Rusconi di Genova con le «loro tonnare e mari, coi titoli di nobiltà e relativi diritti di farsene investire».
Svetta tra le casette dei pescatori – semplici cubetti imbiancati di calce – la palazzina neogotica fatta costruire da Ignazio Florio, il figlio del capostipite Vincenzo. Mentre a un passo dalla spiaggia della Praia si scorge il monumentale stabilimento, un gigante con archi a tutto sesto e stanzoni a perdita d’occhio dove par di vedere ancora gli operai impegnati a conservare sott’olio i sette-ottomila tonni che si tiravano su a ogni mattanza. Oggi è il palcoscenico dei numerosi eventi di musica e spettacolo organizzati dal Comune anche oltre agosto, quando la gran parte dei turisti se ne va e le Egadi restano un paradiso per pochi.
Gira ancora per l’isola il rais, il capo-pescatore alla guida della mattanza che è mito, rito, esibizione di virilità e di forza. Ma che ormai è poco più di un evento per turisti, con qualche decina di esemplari guizzanti che finiscono nelle reti, soppiantata in tutto il Mediterraneo dall’industria feroce delle tonnare «volanti», quelle che fanno base su enormi pescherecci. Attività antichissima, tanto che nella Grotta del Genovese a Levanzo, l’isola dell’arcipelago più vicina alla costa, tra i graffiti del paleolitico e del neolitico spicca la sagoma di un tonno. Piccola, incontaminata, scoscesa, Levanzo è un minuscolo gioiello dove si gira a piedi e in bicicletta e un paradiso per gli appassionati di archeologia subacquea.
Già, perché i fondali di questo piccolo arcipelago raccontano fiorenti attività commerciali e rovinosi naufragi, ma anche contese navali rimaste nella storia. A Favignana il 9 marzo del 241 avanti Cristo si consumò la battaglia delle Egadi, che mise fine alla Prima guerra punica, un quarto di secolo di scontri tra Cartagine e Roma per il dominio del Mediterraneo. Gli archeologi hanno ritrovato nello stesso punto un tappeto di ancore e hanno ricostruito la dinamica di un conflitto che vide gli africani soccombere di fronte alla flotta guidata da Gaio Lutazio Catulo, che per festeggiare la vittoria eresse un tempio a Giuturna nel Campo Marzio, l’attuale largo di Porta Argentina, nel cuore di Roma. I cartaginesi videro rapidamente affondare cinquanta navi e altre settanta furono catturate con l’equipaggio di diecimila uomini. Cala Rossa, la più celebre dell’isola – una piscina naturale trasparente e di un azzurro irreale – avrebbe preso il nome dal sangue versato in battaglia. Mentre il trattato di pace sarebbe stato firmato nella terza isola delle Egadi, Marettimo, la più austera e remota, l’isola sacra dei greci, forse la Itaca dell’Odissea, una fortezza sul mare da godere in barca.
Un bagno qui è un’esperienza che non si dimentica. E a Favignana, mentre si nuota, vale la pena alzare gli occhi e osservare le cave sulla costa, testimonianza di un’altra delle attività storiche di quest’isola industriosa, l’estrazione del tufo. C’è chi la fa risalire ai romani, chi agli arabi. Certo è che dentro questa roccia dolce e morbida si muoveva un esercito di operai-acrobati in grado di estrarre blocchetti già perfettamente squadrati. Come formiche, lavoravano per dodici o quattordici ore al giorno. Così tutta la parte nord-orientale dell’isola è costellata di cave che a volte assumono la forma di grotte, altre volte vanno a disegnare «bassopiani» sotto il livello del mare, diventati oggi suggestivi giardini ipogei dove trovare ristoro dal caldo e riposare lo sguardo nel verde. Magari venato dal rosso di un tramonto che non si dimentica.
Fonte: www.lastampa.it