« Mamma li turchi» e scoppia la festa. Luci abbaglianti di mille colori, fuochi d’artificio, processioni di santi, bande che sfilano scatenando gli ottoni, danza del ventre, archibugi, rutilanti costumi medioevali, scudi, corazze, cantastorie, nitriti di cavalli, preghiere e ancora fuochi. La brezza leggera che viene dal mare si riempie di suoni, di odori, di umori. E’ la festa come la si intende qui al Sud. E’ «la Scamiciata» di Fasano.
Tre giorni di allegria spensierata e rumorosa. Tre giorni senza notti. Tre giorni immersi nella storia barocca. Tre giorni per ricordare quel 2 giugno del 1678, quando i pirati turchi sbarcarono sulla costa per uccidere, depredare, stuprare. Doveva essere un trionfo per gli infedeli, una disfatta per i cristiani, ma non finì così. I masnadieri venuti dall’Oriente non avevano fatto i conti con Fra Zurla da Crema, il Cavaliere di Malta che organizzò la resistenza della popolazione e, al comando di un manipolo di poveri scamiciati, ricacciò in mare il terrore e la morte. Trasformò l’ormai certa schiavitù in vittoria. Gli stupri e le violenze in trionfo. Quella di Fasano è una festa che nasce dalla storia, perché quaggiù, nella Piana degli Ulivi, che si stende verde e docile ai piedi delle colline di Murgia tra la periferia di Bari e la bianca Ostuni, la storia è la vita. Si specchia nell’acqua dell’Adriatico, si nasconde sotto la terra purpurea e ubertosa, si respira nell’aria leggera. Qui, a due passi da Fasano ci sono gli scavi di Egnazia, che cominciano con una necropoli Messapica, si stendono su una città romana e, infine, regalano resti bizantini.
Tra il rosso dei papaveri, il giallo dei margheritoni selvatici, il rosa dei capperi, il profumo di salmastro fuso con gli odori della macchia mediterranea e della mentuccia, spuntano i monconi di gloriose civiltà: nove secoli prima di Cristo, arrivò dal mare un popolo misterioso, di cui non si conoscono le radici. Non si sa se fosse una popolazione dell’Illiria, del Peloponneso o dell’Asia lontana. Si sa, perché ce lo raccontano le tombe di Egnazia, che si trattava di una civiltà raffinata e ricca. Capace di costruire e comprare oggetti di sublime eleganza. Nel parco archeologico sta per essere re-inaugurato un piccolo museo che da solo vale un viaggio in Puglia. Custodisce i tipici trozzelli, vasi messapici col manico a carrucola, una grande anfora nera con disegni gialli (e non rossi come quelli greci), caratteristici della misteriosa popolazione venuta da oriente, e alcuni capolavori di scuola Attica, importati dal Peloponneso. Poi ci sono statue e reperti di ogni genere, fino ad arrivare all’epoca romana. Le legioni latine sono arrivate nel 272 avanti Cristo trasformando Egnazia in una città latina. Girando, quasi in solitudine, per gli scavi, accompagnati dalla colonna sonora che nasce dal frinito delle cicale e dal sussurrare delle onde, ecco spuntare le pietre accaldate che segnalano le antiche terme, la basilica e il foro. Ecco spuntare, tra salvia e rosmarino, il percorso della via Traiana, che portava a Brindisi i carri dei mercanti e le armi delle legioni, potenti senatori destinati all’esilio e giovani studiosi in viaggio verso il sapere greco.
Erano Brindisi e la Puglia le porte dell’Ellade e dell’Oriente. Quando l’imperatore Traiano decise di affiancare all’antica via Appia una nuova strada, parallela, che arrivasse al mitico imbarco per l’Asia, a Egnazia esplose una nuova ricchezza. Durò fino a che da settentrione non giunsero le orde dei barbari e dall’Adriatico le navi saracene. L'Alto Medioevo cancellò Egnazia dalla storia, ma non la civiltà dalla Piana degli Ulivi. Attorno a Fasano sono sparse le prove di una nuova vita per le genti dell’Apulia. Si trovano nelle lame. Le lame sono fiumi prosciugati, piccoli canyon di tufo e di arenaria che serpeggiano tra bassa collina e pianura. La più frequentata dai pellegrini della cultura è la Lama d’Antico. Ci si arriva attraversando campi e frutteti battuti dal sole. Lo spettacolo è, da subito, straordinario: le pareti della gola sono abitate da olivi e carrubi secolari, piante di melograno e cespugli di capperi in fiore. Lungo quello che fu il letto del fiume corrono le macchie azzurre, gialle, rosse lilla di fiori di ogni sorta, che spandono nell’aria profumi a volte dolci a volte pungenti. Niente lascia immaginare che dietro ai minuscoli buchi neri scavati nella roccia si nasconda un intero villaggio sotterraneo: con abitazioni, la chiesa e frantoi scavati nella roccia. Una chiesa vera, con piccole navate, abside, cattedra (evidentemente qui stava un alto prelato) e pitture alle pareti.
Affreschi, dai colori smaglianti e dall’iconografia ben curata, che sono sorprendenti testimonianze dell’arte di secoli ritenuti, a torto, bui e senza vita intellettuale. E’ in queste lame che si sono ritirati gli abitanti della costa per sfuggire alle incursioni dei goti e degli infedeli. Ed in queste lame non vivevano come trogloditi incivili, ma, guidati dai monaci, conducevano un’esistenza laboriosa e complessa. La roccia donava una temperatura stabile e sopportabile sia in estate che in inverno, la terra alluvionale era ricca di minerali e molto fertile, e, soprattutto, i piccoli canyon di tufo regalavano l’invisibilità. Impossibile per i saraceni scoprire i villaggi ipogei se non allontanandosi dal mare e svolgendo una lunga opera di ricerca, spesso vana. E’ per questo che l’attività agricola, nella dolce piana degli ulivi, ha avuto come centro la lama fino al tredicesimo secolo, quando sono nate le prime masserie fortificate. Sempre ai bordi «di» o sopra «un» villaggio scavato nel tufo. Non c'è una fattoria di origine medioevale che non abbia alle sue radici una struttura sotterranea, che non nasconda un frantoio ipogeo: alla luce del sole stanno la sagoma elegante e massiccia della torre centrale, le stalle, i magazzini, le dipendenze, sotto terra, i ricordi abbandonati e cadenti di una civiltà in fuga dalla violenza e dalla paura.
Fonte: www.gazzettadiparma.it