Arrivò in modo quasi naturale: un istinto che spingeva ad andare in mezzo alle persone e guardarle vivere. Donne, uomini, vecchi, bambini. Vestiti stesi in mezzo alla strada, mani nodose, rotondità femminili e fertili, navi lontane, baci romantici, maschere di rughe e povertà. A Palazzo Grimani si viaggia, fino al 30 settembre, nell'Italia in bianco e nero del secondo dopoguerra.
Il Circolo Fotografico “La Gondola” espone 63 scatti storici di 44 grandi fotografi italiani, selezionati dagli oltre cinquemila capolavori che, fra i ventimila presenti in archivio, la Sovrintendenza ha dichiarato di interesse storico e artistico.
È un viaggio che parte dai nuovi ritmi del Nord, sprofonda nell'aspra desolazione del Sud e si conclude nella Venezia dei primi soci e fondatori della “Gondola”: Paolo Monti, Gianni Berengo Gardin, Fulvio Roiter, Bruno Rosso, autori di un sentito e forte addio alla città da cartolina.
Dopo il manifesto del neorealismo lanciato, nel 1945, dal successo cinematografico di “Roma Città Aperta” di Rossellini, erano anni di fermento anche per la fotografia, ancora lontana dall'intenzione della denuncia sociale ma vicina alle emozioni e alla scoperta di un paese ferito, sconosciuto ma energico. Non a caso la mostra, aperta al pubblico da oggi, si intitola “Echi neorealisti nella fotografia italiana del dopoguerra”: «È un quadro esauriente del periodo che, partito nei primi anni Cinquanta, quando la parabola neorealista virava già in affresco di costume» scrive il presidente del Circolo “La Gondola” Manfredo Manfroi «si protrasse ben oltre gli anni Sessanta”. Epoca in cui il mestiere di fotografo era, come oggi, difficile e mal pagato.
Gianni Berengo Gardin, socio storico della “Gondola”, ricorda i suoi esordi come fosse ieri: «Fotografavo per lavoro gli aerei dell'aeroporto Nicelli del Lido e un giorno, passando per Ponte dei Dai, buttai l'occhio al negozietto del Circolo e mi son detto: porto anche le mie. Volevo fare foto artistiche ma, lo giuro, ne avevo fatte di orribili». Difficile da credersi pensando proprio a Berengo: 82 anni, 220 libri pubblicati (il suo “Venise des Saison” è ormai introvabile), e fra i fotografi italiani più conosciuti e stimati al mondo. In mostra a Palazzo Grimani, ci sono i suoi capolavori “In vaporetto” e “Matrimonio a Venezia” (1960), accanto agli scatti di Monti, Bolognini, Bruno Rosso e Toni del Tin. Al tempo dei suoi esordi veneziani, prima di dedicarsi alla fotografia di reportage, le macchine fotografiche non penzolavano dal collo della maggioranza dei turisti in visita in laguna: «Eravamo pochi ma buoni, ci riunivamo per confrontarci e la domenica si andava a Spilimbergo, per raggiungere il gruppo di Italo Zannier. Il nostro desiderio era quello di fare cultura con la fotografia, raccontare persone e paesaggi in cambiamento. Far vedere cosa c'era fuori dalla porta di casa». Berengo, che al digitale si affida con non poco sforzo e qualche ostilità «solo quando la professione lo impone», ricorda anche la Venezia di allora: «Ovvio, non era quella di adesso. Era una città intima, in cui la vita quotidiana degli abitanti si respirava dietro l'angolo. Mi dispiace vederla così, adesso: è vittima di un gioco al massacro, invasa com’è dai turisti e ridotta a mercato. Ne risente anche la sua poesia»
Fonte: http://nuovavenezia.gelocal.it/cronaca/2012/07/12/news/il-neorealismo-nella-fotografia-1.5396425