Diapositive che si guardano controluce con gli occhi strizzati. Dagli occhi alla bocca il passaggio è breve per Mario Dondero. Ricordi che affiorano ad ogni sagoma che emerge dalla plastica trasparente. Poi si gira, mi guarda un po’ e mi dice: «Il mio narcisismo si esalta, quando allestisco una mostra». E scompare nella stanza accanto. In movimento, sempre.
Il fotografo si trova a Genova nelle stanze di Palazzo Ducale, per allestire la mostra Dalla Parte dell'Uomo, sua personale che inaugura sabato 16 giugno, presso la Loggia degli Abati. Lui starà a Genova fino a sabato, perché poi deve andare a Bologna: martedì 19 giugno inaugura alla Cineteca del capoluogo dell'Emilia-Romagna un'altra mostra a lui dedicata.
Mario Dondero è così, classe 1928, e stargli dietro a fatica. Si sposta, racconta, indica, tocca, torna indietro: «Volevo dirti ancora una cosa». Manca quasi il respiro. Ma lui sorride, ti si avvicina, ti mette a tuo agio: «Facciamo che ci diamo del tu, anzi no, io ti do del lei». E poi un sorriso. Ancora uno. Mi chiede se vogliamo sederci, ma è subito in piedi.
Inizia il mio viaggio, il nostro viaggio attraverso la storia. Quella vera, cruda e crudele che arriva e si prende ciò che vuole. Uno scatto per intrappolarla, fatto di nascosto, sul momento. Come l’abbraccio di una mamma a un postino che le annuncia che suo figlio, imbarcato sul transatlantico Andrea Doria nel 1956, è ancora vivo. E lui era lì, abbarbicato in cima a una scala, aspettando l’attimo per acchiapparlo. Come quando prendi tra le mani un grillo e lo senti saltare nei palmi. Il sorriso di quella mamma saltella davanti ai miei occhi, mentre Mario mi racconta le sue storie.
Si parla di tutto, perché lui è stato dappertutto. Ha visto tutto attraverso l’obbiettivo della sua Leika, ma non solo: «Qualche giorno fa sono stato alla conferenza stampa di Hollande con Putin, a Parigi, e tutti i fotografi vicino a me mi guardavano storto, perché avevo tra le mani una vecchia Nikon analogica, piccolina ma perfettamente funzionante». Ride divertito: «Sono un fotografo non conosciuto dai fotografi, ma dai giornalisti sì. D’altronde ho sempre lavorato tra i giornalisti».
Perché alla fine lui è un giornalista. «Credo che per un fotografo sia meglio avere una formazione giornalistica, piuttosto che cinematografica. Un cronista ci mette tre minuti a fare una buona foto, perché sa quanto sia importante l’immediatezza dell’immagine, un cineasta ci mette due ore per fare una ripresa, figurati una foto». E il gusto per l’immagine? «La cultura dell’immagine ce l’abbiamo dentro, noi italiani. Pensa alla sezione aurea, è insita in noi. Nel reportage questo si deve fondere con la velocità e la tecnica, per attenersi alla verità». La verità, appunto: «Le foto belle non raccontano niente». Lo si legge negli occhi delle mondine portoghesi piegate nelle risaie in un’assolata giornata negli anni Cinquanta. O negli occhi di una ragazza che, attraverso il vetro di un caffè parigino, guarda dritta nell’obiettivo di Dondero: «Poi è arrivato il suo moroso», scherza Mario.
Con lui tutte le storie proseguono al di fuori delle cornici nere che racchiudono le sue foto, finestre sul mondo. «Nella foto del Nouveau Roman, lo vedi Lindon che guarda a destra? Ecco, stava aspettando qualcuno». E quel qualcuno mi sembra di vederlo mentre corre verso il gruppetto di romanzieri, un po’ sparuto e disomogeneo sul marciapiede di rue Bernard Palissy, a Parigi. Lo sguardo un po’ perso di Elsa Morante. Il sorriso di Pasolini e la figura di sua madre, sullo sfondo, sfocata. Bacon, ritratto nel caos del suo studio «Mi diede buca per tre volte. Poi lo incontrai in un caffè, a Parigi. Era con un mio amico, che me lo presentò. Gli feci presente l’accaduto e lui mi disse che era colpa della sua segretaria, che odiava gli italiani. Così riuscii a fotografarlo». Tutti questi personaggi si guardano, da una parte all'altra delle stanze della Loggia degli Abati.
Protagonisti di un mondo ben lontano dall’attualità di mamme, postini e mondine. «Non proprio, trovo i romanzieri persone profondamente coinvolti nel mondo. A volte solo loro sono in grado di raccontare le cose come sono realmente. Mi viene in mente Francois Maspero, che ne Les temps des Italiens racconta com’erano davvero gli italiani in guerra. Fascisti sì, ma non dei perseguitatori come lo erano i tedeschi. Nessun giornalista ha mai affrontato questo argomento. Lo ha fatto uno scrittore»
La guerra. Altra costante. Quella fotografata, ma anche quella fatta. Appena ragazzino, Mario ha fatto parte della Repubblica Partigiana dell’Ossola: «Ho avuto un paio di colpi di fortuna, che mi hanno salvato la pelle in quel periodo». Anche se la pelle l’ha rischiata veramente in altre occasioni, mi racconta. Per esempio, il 25 aprile 1967 a Milano, in piazza Cavour: «Un gruppo di studenti stava manifestando pacificamente, quando il Battaglione Padova li ha attaccati brutalmente. L’ho trovata una cosa così scellerata che, istintivamente, ho preso una ragazza per un braccio, per tirarla via. Potevi essere tu. Così i militari si sono avventati su di me, massacrandomi». Altro che le galere dell’Africa.
Continuiamo a spostarci tra le stanze della mostra; Mario mi prende per un braccio ogni tanto, per farmi chinare fino a incrociare gli occhi di un uomo dai tratti mediorientali «Questo adesso sarà un capo dei talebani, credo», mi comunica con estrema naturalezza. Oppure mi spinge per osservare meglio la foto di un figlio delle favelas brasiliane che dorme accoccolato tra le gambe di una statua. Un’opera d’arte nell’opera d’arte. E poi mi fa toccare la luna. Insieme a un omino arrampicato su di un albero della cuccagna: «Altro che Nasa, lui ce l’ha fatta ad arrivare sulla luna».
Quando rimango indietro per scrivere, Mario Dondero mi viene a ripescare e mi spinge avanti. Mi fa entrare nelle sue foto. Sono in Africa, tra i medici di Emergency, sposto lo sguardo e atterro nella Russia di Putin. Poi vado a Parigi, in metro, vicino a un clochard. Guardiamo un po' tristi Jean Seberg: «È morta in un modo così infelice e misterioso». Un'avventura ancora una, uno sguardo veloce a un'attrice d'avan spettacolo e siamo già altre.
Passiamo davanti a una serie di foto di guerra: «Non sono mai stato l’Erodoto della situazione. Né amo definirmi un fotografo di guerra. Anche se ho partecipato a sette o otto conflitti».
Ma ora le guerre si riprendono attraverso un telefonino: cosa significa questo per un fotografo così attaccato ai suoi strumenti? «Il digitale è un’opportunità interessante. Ma io sono troppo affezionato all’analogico, direi in maniera sessuale. Sono legato al gesto. Al doppio click che faccio fare alla mia Leika prima di ogni scatto».
E ai tempi della quantità che supera la qualità, anche nel campo della fotografia, c'è stato un momento che ha abbassato la macchina fotografica. Una foto che davvero non andava fatta? Mario mi guarda, sembra quasi si incupisca: «La foto di quel dittatore che spara alla testa di un dissidente. Ecco, quella non l'avrei mai scattata. Ci sono delle occasione in cui una macchina fotografica può accelerare gli eventi, quello è uno di quei casi. Se forse quel fotografo non fosse stato lì a premere il pulsante della sua macchina, forse la vita di quel prigioniero sarebbe finita in modo diverso».
E allora chi è Mario Dondero? Sorride, come al solito: «In Francia mi definiscono un fotografo letterario. Non sono mai riuscito ad affrancarmi da questa etichetta. Ma in fondo il segreto nel mondo della fotografia è l’essere specializzato in un argomento. Poi puoi fare quello che vuoi. Io ho sempre rifiutato le categorie». E poi ancora un aneddoto: «Una volta sono andato all’ippodromo di Parigi con Robert Doisneau. All’epoca io non ero nessuno, ma lui era già un fotografo affermato. Beh, non ci hanno fatto accedere al bordo pista perché non eravamo degli specialisti».( Fonte: www.mentelocale.it)
Autore: Federica Ferraris