" Tunisi: rivoluzione senza cicatrici " di Edoardo Malvenuti
Un grido ne lancia un altro, e un altro: nella medina di Tunisi si vende ad alta voce, si respira tutta la polvere che fa l’aria setosa. Merce, merce dappertutto e gente che alacremente la muove in un via vai sciamannato, mai stanco, capace di rallentare solo nella controra per riprendere subito dopo con l’insistenza delle offerte di fine giornata.
Dedalo di vie che si incrociano sghembe, palazzi lasciati con moncherini di travi a vista, sacchi di cemento e slarghi dove si ammucchiano immondizia, gatti e persone. È un macedonia che sa di rancido e di pasticceria araba, a seconda. Adesso è stagione di mandorle, si vede: i gusci verdi e duri sparpagliati sul selciato, frutti bianchi come l’avorio gonfiano i sacchi di corda del suk. Ma il silenzio è lì, oltre un pugno di gradini: il cortile della moschea al-Zaytuna è il contraltare del caos. Silenzio, la mattina presto. Con quasi duecento colonne è la moschea più grande della capitale, marmo bianco nel cuore della medina. Ma oltre c’è altro. Perché se questo è il nocciolo più tradizionale e intimamente arabo della città, lo sconfinamento è breve e netto. E attraversata Place de la Victoire si entra presto nella grande avenue de Bourguiba. È l’arteria centrale della capitale dove chiassosi e vivaci caffè all’aperto si incastrano con ministeri e ambasciate. Qui il passeggio è altrettanto fitto che nel groviglio di vicoli vecchi, ma ha un portamento diverso. Questo viale, diviso da un’isola pedonale dove pendono luci a grappoli, ha da raccontare tanto del passato e del presente di questa città, di questo Paese. Già dal nome che porta, quello di Habib Bourguiba, primo presidente della repubblica tunisina dopo l’indipendenza dalla Francia, in carica per trent’anni dal ’57 all’87 fino al passaggio di consegne con Zine Ben Ali. Lui, il presidente cacciato durante rivoluzione del 2011, quella che porta il nome dei gelsomini, ma che odora piuttosto di sangue e asfalto. Anche quello di questo viale, arena di scontri violenti tra manifestanti e polizia. Una rivoluzione, quella di Tunisia, che non è storia – non ancora – ma cronaca pulsante di una situazione che prova a riassestarsi dopo il sisma. A raccontarla ci sono le voci della gente di Tunisi che parla liberamente, si dilunga, dettagliando con fierezza la propria verità: c’è chi le scandisce battendo il pugno sul volante, chi in un francese impeccabile sorseggiando tè su una terrazza. In mezzo resta il legittimo dubbio dell’estraneo che ascolta attento, soppesa le posizioni, ma non trova un giudizio. Però resta calamitato di fronte ai muri che questa rivoluzione la raccontano con la vernice: dalla sagoma di Mohammed Hanchi, morto a diciannove anni durante gli incidenti di piazza con le forze dell’ordine, alla torre di bambini che saltellano sul gioco della campana disegnata col gesso.
Tutti fissano l’ultima casella, e ancora non la raggiungono, è il carburante di questa rivoluzione, la democratie. Ma l’oggi di Tunisi è solo l’ultimo atto di una storia di millenni. E riavvolgere il nastro è necessario e strabiliante: si fa nel museo del Bardo, qualche chilometro fuori dal centro città. Sale lucide, bianche come il sale, ospitano ed annodano un bestiario di ricchezza biblica e un pantheon di miti greci. Tutti mosaici di straordinaria fattura, che prendono senso e bellezza nello stare insieme armonico di scaglie colorate. È la radice romana della Tunisia germogliata nella terra dell’antica Cartagine: distrutta e polverizzata dalle legioni di Roma alla fine della terza guerra Punica. Ora del sito dell’antico porto sul Mediterraneo restano poche rovine fuori la capitale. Le si raggiunge in fretta con il treno che ha il suo capolinea in capo all’avenue de Bourguiba. Correndo sui binari, a sera, si legge il riflesso luminoso della città nella pancia del lago che Tunisi si tiene stretto in pancia. Allungato e sciropposo come un occhio, dal centro si allunga fin quasi al mare. Ma il cerchio si chiude più in là. Oltre la stazione Carthage, fuori da un treno sudato, troppo affollato. È un pugno di case bianche, persiane blu, avvinghiate alla cresta di una collina brulla. Una premessa: raccontare Sidi Bou Saïd, è scontare l’inadeguatezza del linguaggio. La magia succede risalendo la via ciottolata che porta in capo alla collina, una sera di luna piena. Un anziano vende gelsomini raccolti a corolla, che la gente annusa mentre si porta a passeggio. Oltre la piazza stretta, i tavoli di pietra lucida, i cespi gonfi di fiori viola, le case si aprono in uno squarcio sul mare. E sulle luci della città che friggono venti chilometri più in là. È già notte: le foglie di palma trillano come di vetro nella brezza, la luna schizza tutta la sua luce d’argento nel mare nero. Solo all’orizzonte la lanterna di una nave ondeggia pericolosa, arancione, tra le onde. ( Fonte: www.gazzettadiparma.it)
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