Posseggo un’edizione di Ulysses di James Joyce edita nel maggio 1927 a Parigi da Shakespeare and Company: è la nona ristampa del magnifico romanzo, uscito a Parigi il 2 febbraio 1922. Novanta anni fa.
La mia copia fu portata a Rapallo da John Drummond, un giovane collaboratore di Ezra Pound, che l’aveva trafugata da Parigi in quanto il libro, vietatissimo perché giudicato pornografico, non poteva essere importato legalmente in Inghilterra. Infatti la dedica di Drummond alla moglie Elsie (una signora che ancora ricordo seduta con sigaretta negli anni 1950 all’allora Bar Castello) legge: «Luglio 1928. Uno dei maggiori piaceri di una splendida vacanza è stato contrabbandare per te questo libro attraverso la dogana. Jack».
Superstiziosissimo, Joyce ci teneva a segnalare che Ulisse raccontava la vita dublinese del 16 giugno 1904 (data del primo incontro ravvicinato con la compagna della sua vita), era stato finito il 30 ottobre 1921, genetliaco di Ezra Pound che tanto si adoperò per la sua diffusione, ma che sarebbe apparso in occasione del proprio (di Joyce) compleanno, appunto il 2 febbraio 1922. Un bel risultato da portare a casa per un quarantenne.
Da allora le edizioni, le celebrazioni e le stroncature non si contano. Mark Twain diceva che un classico è quel libro che tutti vorrebbero aver letto e nessuno vuol leggere. È così per Ulisse? Molti sostengono che sono finiti i tempi dei romanzi e poemi difficili che ci hanno ammannito i grandi egocentrici dei primi decenni del Novecento: Proust, Mann, Broch... Chi ha più tempo di immergersi nelle Onde di Virginia Woolf, per non dire di quel rompicapo assoluto che è Finnegans Wake, ultimo romanzo di Joyce? Il suo “traduttore” italiano, Luigi Schenoni, è arrivato solo a metà impresa (in tre volumi degli Oscar Mondadori), poi purtroppo ha reso l’anima.
Ancora di recente un critico americano notava che in fondo oggi ha molta più influenza sulla nostra cultura il Philip K. Dick di Bladerunner del “grande” William Faulkner di L’urlo e il furore, notorio per i suoi grovigli indistricabili e ipercommentati.
Quanto a Joyce, già negli anni Trenta uscì un bel volumetto intitolato James Joyce e il lettore comune, sottintendendo che ci volevano spiegazioni. E in questi giorni un professore di Dublino, Declan Kiberd, si è provato a spiegare nel volume Ulysses and Us che Joyce ci ha regalato un tesoro di incitamenti pratici e teorici di facile decifrazione sull’Arte del vivere quotidano (per citare il sottotitolo).
Come si sa, Ulisse consta di diciotto episodi che Joyce stesso designò fuori testo con richiami omerici: Telemaco, Proteo, Calipso, Sirene, Ciclope, Eumeo, Penelope, ecc. Kiberd nel suo Ulisse e noi, edito dalla Faber con in copertina la celebre foto di Marilyn Monroe che legge Ulisse, fornisce invece titoli pratici: Svegliarsi, Mangiare, Spiare (!), Educare figli.
Kiberd spiega con qualche ragione che i discorsi troppo astrusi dei critici universitari hanno allontanato i lettori da Ulisse, ma questo è vero di tutta la letteratura: una cosa è studiarne aspetti specialistici, un’altra è rapportarsi con essa, scoprirla e goderla, come per fortuna capita qualche volta. Kiberd insiste sul carattere democratico della visione joyciana, ma i suoi recensori hanno notato che poi quando inizia con le spiegazioni le complicazioni del romanzo tornano a galla. Già il fratello di James, Stanislaus, protestava contro certi capitoli troppo lunghi in cui Joyce si era lasciato prendere la mano dal puro virtuosismo. Del resto anche in Cervantes, Rabelais, Dante e Omero (tutti autori impliciti in Joyce) non mancano le lungaggini.
Dove però Kiberd sembra a sua volta esagerare è nella sua lettura etica dell’Ulisse, che secondo lui vorrebbe proporci a modello la saggezza del protagonista Leopold Bloom, l’uomo comune, e celebrare il suo incontro con Stephen Dedalus (l’intellettuale, il giovane Joyce). Per fortuna Joyce non voleva insegnare nulla, ma certo mostrarci un eroe di tutti i giorni dotato in effetti di notevoli virtù: ingegnosità, tolleranza, fedeltà, pazienza. Ma non ci vuole Ulisse per sapere che la generosità è buona cosa.
Joyce pare invece si lamentasse che pochi si accorssero che Ulisse faceva anche molto ridere. Aveva il gusto pronunciato della parodia, e imitava lo stile dei romanzi rosa con la stessa passione dello stile di Dickens o Wilde. L’episodio di Nausica disegna una ragazzetta sulla spiaggia all’imbrunire nella prosa dolciastra dei romanzi di appendice che nutrono la sua fantasia, e mentre leggiamo ci sembra di sentire sullo sfondo le risate dell’autore e vi partecipiamo. Il che non significa che Joyce disprezzi la povera Gerty con il suo esibizionismo erotico. Freddo e conseguente fino all’egoismo, il primogenito Joyce, orfano della madre e con un padre alcolizzato, abbandonò senza scrupoli a 22 anni otto fratelli e sorelle minori in condizioni di miseria per rifarsi una vita a Trieste con la sua compagna e perseguire la sua arte. Nel libro dimostra invece una straordinaria capacità di partecipazione umana.
Quanto poi l’Ulisse appassioni ancora oggi, senza bisogno di dotti commenti o predicozzi, è dimostrato dal ripetersi ormai canonico del Bloomsday genovese, uno dei tanti omaggi resi il 16 giugno a Joyce e al suo capolavoro nell’universo mondo, ma abbastanza unico in quanto Ulisse a Genova viene letto pressoché integralmente dall’alba a notte fonda da un’ottantina di lettori che non si fanno pregare e che trovano evidentemente negli episodi del romanzo ispirazione e godimento.
Nei paesi di lingua inglese è più diffuso che da noi l’audiolibro, e ascoltare Joyce letto come si deve basta per capire quanto ci sia da godere in ogni pagina, senza più difficoltà che in una qualsiasi comunicazione teatrale o televisiva. Un mondo di parole, certo, nel quale del resto viviamo tutti e che a volte capita la fortuna di vedere animato dal vigore e dalla penetrazione del genio.
Fonte: www.mentelocale.it
Autore: Massimo Bacigalupo