E' mezzanotte passata da un’ora e quaranta quando la macchina infila la prima delle sei corsie della periferica. Nella luce esatta di una schiera di lampade il traffico è rarefatto fino al silenzio. Il gracidare indistinto della radio s’azzera: sbattono i vagoni di un treno merci che ci spinge da dietro, ci raggiunge, ci doppia. Noi, che ci siamo accordati su un prezzo piuttosto che sugli scatti del tassametro immobile, gli occhi inchiodati fuori dal finestrino, siamo di poche parole.
Kuala Lumpur riempie i cristalli del taxi con la sua sagoma di luce tremula. Un’ ordinata addizione di alveoli per umani, condomini anonimi, uffici deserti. L’espansione periferica spinge forte, la nuova tigre della Malesia non dorme nemmeno di notte quando i cantieri lavorano alla luce abbagliante dei fari. E la memoria esotica di Salgari, dei pirati, della giungla, è annientata dalla regolarità di quarzo di questa cyber capitale. Dove velocità, consumo e soldi sono una fede sicura. E i quattrocentocinquanta due metri d’acciaio, vetro e ambizione delle torri Petronas i suoi templi d’argento. La coppia di grattacieli un tempo più alti del mondo ha la bellezza, la regolarità gelida di una pietra. A centosettanta metri da terra una passerella vetrata, di memoria cinematografica, permette di passare da un edificio all’altro sospesi sopra il pigia pigia della città. Costruite su un progetto dell’argentino Cesar Pelli, ogni torre inanella cinque livelli sovrapposti che riprendono simbolicamente i cinque pilastri dell’islam. Che in Malesia è religione di Stato, praticata da più della metà dei suoi ventotto milioni di abitanti. E proprio di tradizione musulmana sono i preziosi porta pergamene in ambra e avorio, i corani miniati in oro e argento e gli utensili da cerimonia che riempiono le sale del Museo di Arte Islamica della città: una collezione che non ha eguali in tutto il Sud Est Asiatico. Edificio voltato in marmo e ceramica azzurra, aperto nel 1998, rimane a fianco della grande Moschea Nazionale, che si riconosce per il suo caratteristico tetto a pagoda, tipico dell’architettura islamica delle regioni tropicali. Ci si arriva con il treno metropolitano, fermata Pasar Seni. E ancora, sempre seguendo i canaloni delle rotaie sospesi sopra le strade intasate, si incontrano molti altri edifici che raccontano la storia breve, violenta e forsennata di Kuala Lumpur. Indietro, fino al 1857, quando ottantasette cinesi alla ricerca di campi per l’estrazione del petrolio si installano all’incrocio dei fiumi Klang e Gombak, una «confluenza fangosa» - così si traduce il nome della città - di fango umido e malarico che nel giro di un mese falcia quasi tutti i suoi pionieri. Restano in diciassette. Un pugno di uomini e una terra che vomita petrolio sono il preambolo a una storia di soldi e di sangue.
Ben presto i pozzi passano nelle mani di bande di fuorilegge cinesi che s’affrontano, s’ammazzano. È il caos. Così, come in altre regioni del Paese, il sultano decide di eleggere un procuratore locale, il kapitan china, nel tentativo di garantire la convivenza pacifica. Il piano ha successo. Ma altri rivolgimenti sono a venire: prima il controllo coloniale inglese, poi la seconda guerra mondiale che porta l’occupazione militare giapponese. Bisogna aspettare il 17 settembre 1957 perché la città, il Paese, siano di nuovo liberi: è l’anno della Malesia indipendente. A ricordare quel giorno una imponente bandiera nazionale sventola in cima ad una delle aste più alte di tutta l’Asia, in Merdeka Square, in mezzo a quel poco che rimane del quartiere coloniale della capitale. Perché di quei palazzi, di quelle piazze ancora affollate nelle vecchie foto esposte al Museo Nazionale, resta poco o niente. Sono di mezzo secolo fa, ma a queste latitudini è già preistoria. Sono bastati vent’anni a Kuala Lumpur per diventare un gomitolo di carreggiate disposte su più livelli, costruite per essere sistematicamente inutilizzabili dai pedoni. I pochi strappi verdi rimasti sono giardini a pagamento, flora esotica e farfalle rare. D’erbaccia non ne è rimasta più: solo la terra di spoglie e recintate aree fabbricabili.
È una capitale che mastica la sua memoria, polverizza il suo presente, si rinnova senza tregua Kuala Lumpur. Disappunto e eccitazione hanno questa stessa radice. Che si ulcera di notte quando i riverberi scintillanti dei grattacieli sbattono contro i finestrini, le sagome liquide dei neon riflettono sui vetri dei palazzi. Il suo epicentro a quest’ora è Jalan Mesui, il quartiere dei bar e delle discoteche. Dei bicchieri mezzi vuoti, delle ragazze svestite, o dei mendicanti allontanati perché non deprezzino questa chiassosa fiera. E vederla così, da qui, ecco l’idea bizzarra che viene in testa: che questa città non sia altro che la somma dei suoi singoli movimenti. Che non esista fuori dalla traiettoria della persone che l’attraversano ogni giorno, senza tregua. E che se solo per un istante si potesse fermare questa agitazione, tagliare l’energia elettrica che l’illumina, allora tutto scomparirebbe nel buio. I suoi palazzi, i suoi dipendenti, le sue infrastrutture sgarbate. E resterebbe solo la notte, umida. Il fischio del vento tra le foglie di palma.
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Il festival: Il Thaipusam è un festival indù che si svolge ogni anno in diversi Paesi del Sud Est Asia tra gennaio e febbraio. La cerimonia di Kuala Lumpur, che chiude un mese di preghiere e di privazioni, è un’orgia di colori, preghiere, schizzi di latte rituale e sangue. Una processione lunga quindici kilometri parte dal tempio Sri Mahamariamman a Chinatown per arrivare in cima ai trecento gradini che conducono alle cave Batu, all’estremità settentrionale della città. I fedeli, che portano un baldacchino della divinità lungo tutto il percorso, spesso si trafiggono varie parti del corpo con lunghi aghi secondo un antico rituale di purificazione. Una volta raggiunta la sommità, estratti gli aghi dalla carne, le ferite sono trattate con succo di limone e cenere sacra.
Fonte: www.gazzettadiparma.it