Fonte: www.gazzettadiparma.it
Singapore, mixer tropicale - di Luca Pelagatti
A Singapore c'è tutto. Ci sono i grattacieli tracotanti (come a New York), i microbirrifici artigianali (come nelle Fiandre), le vetrine dei soliti sarti presuntuosi (come a Parigi) ma anche le piroette dei giocatori di cricket (come a Londra) e legioni di imperdibili bancarelle che miscelano nel wok la dolcezza del granchio e lo schiaffo del peperoncino (proprio come a Bangkok).
Ma voi lasciate perdere tutto questo - almeno per un momento - e sedetevi (come a Milano) tra i bar modaioli di Clark Quay a seguire con la sguardo lo zigzagare quieto di una barchetta che ronza sulle acque lente del fiume Singapore.
Ecco, quella barchetta che filtra l'acqua del fiume, per impedire che qualunque oggetto galleggiante ne deturpi il lindore, la vedrete solo qui. Nemmeno le ossessive e prevedibili Lugano o Zurigo hanno osato tanto. E se a questo aggiungete che qui sono fuorilegge persino le chewing gum (che se si sputano poi si inzacchera il marciapiede) capirete perchè a Singapore c'è tutto. Tranne lo sporco.
Così non troverete graffiti nella metropolitana, che è lucida come uno specchio, e neppure cartacce nei parchi ordinati come tinelli di una vecchia zia, non ci saranno cicche spente istericamente ai semafori e intorno alle bancarelle del cibo non incespicherete mai in scarti o cascami maleodoranti. Eppure questa città-stato, un’isola tutto sommato piccina e vagamente rettangolare, poco più di 40 chilometri da est a ovest, spaparanzata in fondo alla Malesia, tra il mar Cinese e il più che esotico stretto di Malacca, non è sempre stata così. Anzi.
I tempi della Compagnia delle Indie
Singapore, terra che già dal nome evoca orientali malìe, fino all’inizio del 1800 era rifugio ruvido da rozzi avventurieri, almeno sino a quando sir Thomas Stamford Raffles, che qui è onnipresente nei nomi e nelle icone persino peggio del nostro Garibaldi, arrivò a trasformare l’isola in un porto franco, colonia di sua Maestà e cassaforte della Compagnia delle Indie. Da allora, anche grazie alla lungimiranza di sir Raffles il paese ha cambiato volto.
Il lord col pallino degli affari infatti, che ancor oggi occhieggia in marsina in statue corrucciate di fronte al travolgente skyline della città, stabilì regole ferree scolpite nel buon senso: le varie etnie - cinesi, indiani, malesi - si spartiscano ciascuna il proprio quartiere e i marciapiedi devono avere coperture e portici.
Sembra una banalità ma sono passati due secoli e tutto questo vale ancora. E non si sente per nulla il bisogno di cambiarlo.
O meglio: tutto è cambiato. Ma sulla base di un decalogo che ha fuso rigore e tradizione la città è diventata una metropoli dove i grattacieli fanno a gara a spingersi più in alto mentre, a poche centinaia di metri, nelle stradine di Chinatown, in silenziose botteghe zeppe di merce, si può mercanteggiare con astuti commercianti lacche e portagioie istoriate.
Nello stesso modo lungo il fiume (quello dragato dalla barchetta), all'ora dell'aperitivo, frotte di giovani in sneakers si offrono giri di birra in pub che paiono presi da Camden Town mentre, tre fermate di metropolitana più in la, donne in sari multicolori sgomitano per comprare il curry al Tekka center, il mercato di Little India.
Orchidee e orologi di marca
E ancora, se non bastasse, lungo Orchard road, al Ngee Ann City, uno dei centri commerciali più grandi e sfavillanti del Sud Est asiatico i drogati dello shopping sfogano la loro frenesia saltabeccando da Chanel a Dolce e Gabbana, passando per Rolex, mentre a nemmeno un quarto d'ora di distanza è affascinante provare a fare la conta delle orchidee che si arrampicano sui tronchi nella giungla (quella vera). Dicono le guide che di orchidee qui ne siano più di 400 specie.
Insomma, Singapore, l'isola dove la gente non rinuncia al rituale del Thai Chi al tramonto ma si accalora per il Gran premio di Formula 1, è una specie di mixer tropicale. E il risultato, a differenza del Singapore Sling, il cocktail orgoglio dei barman locali, è tutt'altro che stucchevole.
La riprova, nel mondo nostro incattivito da guerre di religioni e scaramucce di cattivo vicinato, si ritrova passando da un quartiere all'altro e infilandosi, curiosi e senza troppe timidezze, nelle chiese. Che qui ospitano Allah e Shiva, Buddha e il nostro Dio. In tutte, senza distinzione, fedeli e sacerdoti vi saluteranno con un cenno e magari un sorriso. E se avete appetito spesso ci scappa anche una ciotola di riso.
Per carità però: non stiamo parlando del paradiso. Anche Singapore sconta i suoi peccati originali.
A partire dal clima che svela quasi subito il perchè dei portici onnipresenti: la temperatura, tutto l'anno e tutti i giorni, oscilla tra una massima di 34 gradi e una minima di 24 e il mutare delle stagioni è un illusione da occidentale sudato. Se si aggiunge una umidità da bagnoturco si comprende il culto locale per l'aria condizionata.
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