In maniche corte a gennaio, si può. Dentro questa miscela soffocante d’afa, di smog, di fumi d’immondizia che brucia ai bordi della strada. Poi piove: l’acqua dei tropici è fulminea, frusta violenta le risaie. Gonfie, più gonfie, disertate dalle mondine riparate al villaggio. Il tempo corto di uno sfogo: nuvole rapide, palme fradicie, umidità ancora spessa come lana. Uomini e donne scalzi, asciutti - anziani contadini – si calano nel fango fino alle ginocchia. Ancora piegati, spezzati, nella postura della semina, del raccolto, del riposo.
Nell’ombra del cappello di paglia triangolare si intravede solo un angolo di pelle scura tirata sugli zigomi, gli occhi nemmeno, sono fessure inaccessibili agli estranei. Schierati e soli, calano mazzi di riso nei campi allagati. È da questi sterrati che ha senso cominciare Yogyakarta, da questa gente: rovesciata sotto verande infestate di falene, cucina per terra, dorme in stanze senza pavimento, ama perdersi in chiacchiere, ore e ore intorno al filo di luce di una lampada ad olio di un angkringan, carretto ambulante che vende fritti, riso, frattaglie di pollo. Questa città, assieme all’ordito dei sui villaggi, è la capitale delle arti e della cultura di Giava, che insieme a Sumatra, Sulawesi, Kalimantan e Papua è una delle cinque grandi isole dell’Indonesia, il più grande e popolato Paese del Sud-Est asiatico che conta ormai duecentoquaranta milioni di abitanti.
Ma Yogyakarta è un’eccezione che ha resistito alla riorganizzazione amministrativa del Paese seguita all’indipendenza del 1945: il suo status di sultanato autonomo per molti aspetti la estranea all’accelerazione economica occidentalizzante che ha trasformato diverse metropoli indonesiane.
A Yogya, come è conosciuta qui, il kraton - o palazzo del sultano – è il nucleo centrale attorno a cui s’avviluppano le arterie cittadine. Gli edifici più antichi di questo complesso, dove ancora oggi risiede il sultano, risalgono alla metà del XIX secolo. Dietro le mura spesse e bianche che gli corrono tutt’intorno il tempo è scandito dagli atti del teatro delle ombre – o wayang kulit. Oltre uno schermo di stoffa anziani maestri muovono marionette arabescate recitando antiche leggende giavanesi che possono durare il tempo di una notte.
All’ipnosi provvede la musica: quella squillante del gamelan, l’orchestra di percussioni giavanese. Sotto il padiglione centrale uomini in abito tradizionale, armati di coltello alla cintura, battono sugli strumenti come da millenni a questa parte. Sconcerta la loro lentezza, l’abbandono allo strumento, il rigore di una melodia ripetuta come un mantra. La musica non è intrattenimento, ma cerimonia, testimonianza di un sacro pagano dalle radici robuste. L’islam arriva dopo tutto questo. Si innesta nella cultura locale, s’adultera in una variante squisitamente regionale. Così, mentre i minareti gridano puntuali cinque volte al giorno, gran parte dei giavanesi abbassa ancora la voce per parlare di spiriti e fantasmi. Sono presenze certe, scongiurate, temute da tutti.
E questa cultura meticcia è ancora più evidente nell’abbigliamento: mentre la gran parte delle donne indossa un velo a nascondere i capelli, diverse danze tradizionali - elemento decisivo dell’identità culturale della regione - vengono ballate a capo e spalle scoperti, con le ballerine che ammiccano al pubblico con lo sguardo. Ma è questo contesto caotico, questa macedonia di religioni, tradizioni e leggende ingarbugliate una nell’altra l’incanto di Yogya.
Così a mezz’ora dal centro ecco uno dei siti hindu più straordinari di tutta l’isola di Giava: il complesso dei templi di Prambanan. Il più maestoso, centrale, è dedicato a Shiva, il distruttore. Costruiti tutti tra l’VIII e il X secolo i templi principali si alzano sulla pianura pesanti di pietra nera ma slanciati dai motivi scultorei verticali d’origine indiana. Lo sbigottimento è pari a quello delle piramidi d’Egitto, sarà il calore soffocante, ma il pensiero è al sudore, al dolore, all’arte di uomini morti per sollevare agli dei santuari eterni. Viola e vischioso è il tramonto delle cinque su questa spianata di pietre.
Lontano all’orizzonte si intravede il profilo sfocato del Merapi, uno dei vulcani più attivi dell’Indonesia, che domina minaccioso questa languida pianura tropicale. Rientrare in città è un caotico massacro di traffico, nidiate di motorini ai semafori, ancora pioggia, colonne di macchine che procedono a passo d’uomo dietro alla pedalata lenta dei becak – sorta di carrozzelle che permettono il trasporto di due persone.
Oramai è notte di neon, di turisti, di chitarristi ambulanti fino a tardi su jalan Malioboro, il corso sempre illuminato di caffè, discoteche, souvenir a poche rupie. Ma è solo un miraggio rumoroso per bianchi: la vera Yogyakarta dorme già. Vicino ai campi dove le rane gridano come ossesse, la sola crepa nel silenzio di una notte breve. La prima preghiera è prima dell’alba, sono le quattro, comincia un nuovo giorno.
Fionte: www.gazzettadiparma.it
" Yogyakarta l'Indonesia magica e segreta" di Edoardo Malvenuti
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